La musica carnatica: Un aspetto centrale della cultura sudindiana

Pia Srinivasan Buonomo © Redazione a cura di Enrico Renna musicbOOm

La musica carnatica, come viene chiamata la musica classica dell’India del sud rispetto alla musica indostana, il suo equivalente nell’India del nord, è un aspetto centrale della cultura sudindiana. Come molte forme tradizionali di cultura in tutto il subcontinente, è di contenuto religioso; questo significa che i testi cantati in sanscrito, telugu, tamil e kanarese – la musica vocale è la base di questo idioma – sono in lode di Dio; per essere precisi, l’autore del testo che generalmente è anche il compositore, canta in lode del dio o della dea del pantheon indù cui si è dedicato. La divinità lodata viene concepita come l’Essere Supremo, e non semplicemente come una fra le tante; un’elevazione, va notato, che può essere a favore anche di un dio cui il compositore non abbia dedicato se stesso, come quando, per esempio, visita un tempio la cui divinità sia un’altra – qualunque sia la ratio di questo eclettismo che desta certamente interesse.

Vale a dire che nella musica carnatica il testo è di grande significato, e i testi di Tyagaraja (1767-1847), Muttusvami Diksitar (1776-1835) e Syama Sastri (1762-1827) costituiscono una parte importante nella letteratura religiosa sudindiana.

Tuttavia, anche se i testi in realtà sono altamente significanti come elementi che un musicista accetta e non ha composto lui stesso, è da notare che la musica carnatica possiede anche considerevoli aree di improvvisazione che le sono essenziali.

La musica carnatica è, in ogni caso al momento attuale, un idioma vivente. Come la musica classica dovunque, è ovviamente ristretta a un’élite; ma occupa un posto importante nella vita di questa minoranza, che generalmente ha una considerevole conoscenza degli aspetti tecnici della musica, una caratteristica che si nota anche in famiglie in cui nessun membro è attivo nel campo. Nelle sale da concerto c’è una notevole affluenza di pubblico e colpisce il livello sia della musica che dell’apprezzamento critico da parte di chi ascolta. In effetti, ogni visita nel sud dell’India sarebbe incompleta senza includervi un concerto; e l’esperienza comune a persone provenienti da altri continenti con conoscenze musicali ben diverse è che questo particolare idioma tende a diventare un contenuto importante nella loro vita.

RAGA Nel sistema musicale indiano ci sono sette note: sa ri ga ma pa dha ni (do re mi fa sol la si), come vengono chiamate dalla sillaba iniziale del loro nome sanscrito: sadja – rishabha – gandhara – madhyama – panchama – dhaivata – nishada. Poiché la musica indiana non ha un’altezza assoluta e il suo sistema non è temperato, gli equivalenti occidentali possono essere solo approssimati. Il punto vitale è che sa (=do) è sempre la tonica. La sua altezza attuale dipende dalle possibilità di chi canta o dello strumento.

Nel tentativo di capire il concetto di raga, in generale viene discussa una certa classificazione di questi schemi melodici che si può rintracciare fino al 1550. A parte le eccezioni, è una classificazione che ancora domina sia la teoria che l’educazione musicale in India. I suoi caratteri essenziali sono questi: i raga vengono divisi secondo le loro salite e discese in A) quelli che hanno le stesse 7 note nelle due direzioni, e B) quelli che hanno solo 6 o 5 note, oppure tutte e 7 le note, nel cui caso fino a 3 note possono subire alterazioni. Gli elementi base del gruppo A si trovano nell’opera Caturdandiprakasika (circa 1635 d.C.) di Venkatamakhin. Intorno al 1800 questo gruppo si è sviluppato nella sua forma attuale che consiste in 72 raga: dei 12 semitoni esistono 36 permutazioni con fa e altre 36 con fa diesis.

Pia Srinivasan – vina

Benché sia da ammirare per la sua chiarezza, questa classificazione è tuttavia di scarso valore pratico. La sua virtù consiste essenzialmente nel fatto che rende possibile riferire i raga del gruppo B a quelli del gruppo A sulla base di affinità. Nella musica indiana come è attualmente eseguita, frasi tipiche e abbellimenti sono di primaria importanza. Un tentativo notevole di sistematizzare gli abbellimenti venne fatto da Somanatha che nel suo Ragavibhoda (1609 d.C.) annota e descrive 23 ornamenti per la vina (liuto a lungo manico); come li conosciamo ancora oggi. In ogni caso, Somanatha resta un’eccezione e, malgrado la loro importanza, gli abbellimenti hanno ricevuto l’attenzione che meritano soltanto nei trattati di teoria dei nostri giorni.

E ora ancora due aspetti: primo, l’altezza esatta di un abbellimento non è importante. Non è, e non può essere, sempre identica, neanche nel caso dello stesso musicista. Secondo, una nota abbellita non può essere separata dal suo abbellimento; per esempio re nel raga Sankarabharana comporta anche il suo ornamento (es.1. Le notazioni qui date possono ovviamente essere solo un’approssimazione). Un abbellimento può perfino sostituire la nota abbellita, come nel caso di mi bemolle e la bemolle nel raga Todi (es.2).

Un raga può, quindi, essere descritto in questi termini: può avere le stesse 7 note in salita e discesa; o 7 note con variazioni in altezza, o perfino 6 o 5 note; la direzione melodica non deve necessariamente essere lineare, ma delle note possono essere omesse o ripetute (raga Vasanta: es.3); un raga è caratterizzato da abbellimenti, frasi chiave e tipici intervalli microtonali.

TALA Un tala è un ciclo metrico con un numero fisso di battiti che sono o modellati in piccoli gruppi o restano un gruppo indiviso. Esiste un gran numero di tala, ma in un concerto quelli più frequenti sono i seguenti quattro: – adi (4+2+2); – rupaka (2+4) (la sua versione abbreviata è usata come un modello ternario in pezzi veloci); – khanda capu (2+3); – misra capu (3+2+2).

Il primo battito di ogni piccolo gruppo viene accentato. Nelle composizioni ogni battito viene continuamente diviso in 3, 4, 5, 7 o 9 sottobattiti. In un ciclo metrico le note possono essere raggruppate in diversi modi derivati dalle suddette frazioni, una pratica che ha origine nell’arte della percussione. Ciò avviene quando i valori delle note sono ridotti due o tre volte.

Da notare che non c’è un tempo assoluto, ma solo tre tempi relativi: lento, moderato e veloce. Il tempo si porta battendo le mani e facendo gesti con le mani e con le dita, sia durante l’insegnamento che quando si studia, una tradizione che si trova già descritta nel Natya Sastra (fra il II sec. a.C. e il II sec. d.C.). E questo modo di portare il tempo è presente nei concerti ad opera del cantante, che in questo modo è coinvolto completamente, non solo con la voce. Col battere delle mani è come se si sia aggiunto un ulteriore strumento ritmico.

LA NOTAZIONE INDIANA

Special: musica carnatica

A parte rare eccezioni come il Ragavibhoda di Somanatha (vedi sopra), la notazione indiana è estremamente insufficiente nei dettagli, dato che si scrivono solo i nomi abbreviati delle sette note, senza indicare alterazioni o abbellimenti. Alcuni musicisti annotano le note contenute in un abbellimento, ma senza indicarne gli esatti valori. Per questa ragione non è facile, quando ci si avvicina per la prima volta alla musica classica indiana, determinare quale nota sia essenziale e quale addizionale. Questa scarsa notazione alfabetica serve solo come base per la memoria, specialmente se si tiene conto che un musicista spesso esegue lo stesso pezzo in modi diversi – l’improvvisazione ricopre dopo tutto un ruolo importante nella musica indiana. Tuttavia questa pochezza di dettagli nella notazione è comprensibile, dato che in tutta l’India la musica viene appresa in un rapporto intimo con l’insegnante la cui arte il discepolo imita e assimila.

Nei doppi pentagrammi il primo è la transnotazione della notazione alfabetica originale indiana, il secondo indica una delle possibili esecuzioni.

Es. 1: Raga Sankarabharana: salita e discesa.

Es. 2: Raga Todi: salita e discesa.

Es. 3: Raga Vasanta: salita e discesa.

Bibliografia. Pesch, L.: The Illustrated Companion to South Indian Classical Music, Delhi 1999: OUP. Reck, David: Music of the whole earth, New York 1977: Scribners. Sambamoorthy, P.: South Indian Music, 6 vol., Madras 1966 s.: The Indian Music Publishing House. Srinivasan Buonomo P.: Commento a “Musik für Vina“, Berlin 1980: Museum Collection Berlin (West) MC-8. Srinivasan Buonomo P./Srinivasan S.A.: The Goddess Mariyamman in music and sociology of religion, Reinbek 1999: Dr. Inge Wezler Verlag.

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